venerdì 29 dicembre 2017

SLUMBERLAND di Paul Beatty


Trama 2/5: Berlino, 1989. dj Darky è nero, viene da Los Angeles e ha un sogno: trovare Charles Sione, in arte Schwa, mitico musicista dell'avanguardia jazz, e fargli suonare il suo perfetto beat. Il Muro cadrà a breve e una nuova città lo aspetta, sterminata e pullulante di vita: va scovato il suo cuore pulsante, ne va colto il battito, va fatto proprio. Un'arteria tra tutte gli balza agli occhi, indicando la meta: un locale in cui si la musica, lo Slumberland bar, dove si fa assumere come Jukebox sommelier. In quei pochi, fumosi metri quadrati di impiantito sporco e ritmo perfetto, si apre così una nuova stagione di ascolto: un'educazione acustica, politica e sessuale che via via annette territori inediti, nuovi gusti musicali, nuove memorie fonografiche. Nel frattempo, come un caldo giro di basso che s'insinua lungo le strade vivaci della città, dj Darky passa da un letto tedesco all'altro mentre affila le armi di un'ironia argomentativa che non ammette limiti: sulla negritudine in quegli anni in America e in Europa, sulle relazioni tra uomini neri e donne bianche, sulla musica jazz e techno, sulla condizione dei tedeschi dell'Est dopo l'unificazione e quella degli afroamericani dopo le battaglie per i diritti civili. Paul Beatty, una delle voci più pungenti d'America, ci regala un irresistibile sound letterario, un graffiante ritratto delle contraddizioni di quegli anni, ma soprattutto un atto d'amore per la musica, a suo vedere l'unica cifra con cui è possibile misurare la realtà e la vita.
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Fosse stata una biografia l'avrei anche accettato, ma tutto sommato nonostante la scrittura sia coinvolgente e serrata, sembra non andare a parare da nessuna parte. Beatty sa perfettamente come trattare un tema scottante in modo leggero che però poi ti lascia l'amaro in bocca. Già ne Lo Schiavista c'era riuscito egregiamente. Qui invece ho notato con rammarico una certa confusione e un girare in tondo che non porta a nulla di particolare. Secondo me un'occasione mancata!

YERULDELGGER - TEMPI SELVAGGI di Ian Manook


Trama 2/5: È inverno inoltrato e la steppa è avvolta nella morsa dello dzüüd: le temperature si aggirano sui meno trenta, un vento gelido imperversa e il paesaggio è spazzato da tormente di neve. Sembra di respirare vetro. È la leggendaria sciagura bianca, che al suo passaggio lascia dietro di sé una scia di cadaveri. Milioni di vittime, uomini e animali. Da un cumulo di carcasse congelate, incastrata fra un cavallo e una femmina di yak, sbuca la gamba di un uomo. È solo il primo di una serie di strani ritrovamenti. Nel frattempo, in un albergo di Ulan Bator, viene assassinata la prostituta Colette, delitto del quale è accusato proprio il commissario Yeruldelgger. E poi c'è la scomparsa del figlio di Colette, le cui tracce porteranno il commissario fino in Francia, in una fitta trama di giochi di potere dei servizi segreti, loschi affari dei militari e corruttela della politica. Yeruldelgger non ha più niente da perdere ed è pronto a uccidere. Il fuoco va sconfitto col fuoco, proprio come si fa quando scoppiano gli incendi nella steppa: si creano muri incendiari. E intanto, la neve continua a ricoprire la Mongolia... [Volume 2]
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Eh no... qui c'è decisamente troppa roba...
Non mi è piaciuto come il primo, vero anche che il primo era originale, diverso dai solito soprattutto per ambientazione quindi mi aveva colpito.
In questo secondo volume invece l'ambientazione mi era già più familiare quindi volevo capire come poteva evolversi la storia, che in realtà ha iniziato con una stonatura (almeno per me)... c'era un qualcosa che non andava nel nuovo amore di Oyun... non dirò nulla ma era qualcosa di particolarmente fastidioso che stonava e mi dava l'orticaria... non parlo di antipatia o fastidio, ma qualcosa di più profondo come un disagio interno... boh comunque il resto del libro ha troppa carne al fuoco, troppi intrecci, troppi coinvolgimenti e ad un certo punto ti accorgi che era veramente troppo, un pasto troppo vario e abbondante.
Niente, peccato, non all'altezza del primo...

YERULDELGGER - MORTE NELLA STEPPA di Ian Manook


Trama 4/5: Non comincia bene la giornata di un commissario mongolo se, alle prime luci dell'alba, in una fabbrica alla periferia della città, si ritrova davanti i cadaveri di tre cinesi, per di più con i macabri segni di un inequivocabile rito sessuale. E la situazione può solo complicarsi quando, poche ore dopo, nel bel mezzo della steppa, è costretto a esaminare una scena perfino più crudele: i resti di una bambina seppellita con il suo triciclo. Quello che però il duro, rude, cinico ma anche romantico commissario Yeruldelgger non sa è che per lui il peggio deve ancora arrivare. A intralciare la sua strada, e a minacciare la sua stessa vita, politici e potenti locali, magnati stranieri in cerca di investimenti e divertimenti illeciti, poliziotti corrotti e delinquenti neonazisti, per contrastare i quali dovrà attingere alle più moderne tecniche investigative e, insieme, alla saggezza dei monaci guerrieri discendenti di Gengis Khan. Sullo sfondo, una Mongolia suggestiva e misteriosa: dalla sconfinata Ulan Bator alle steppe abitate dagli antichi popoli nomadi, un coacervo di contraddizioni in bilico fra un'antichissima cultura tradizionale e le nuove, irrefrenabili esigenze della modernità. Yeruldelgger dovrà compiere un viaggio fino alle radici di entrambe, se vorrà trovare una soluzione per i delitti, e anche per se stesso. Un thriller classico, a tinte forti, con un'ambientazione unica, in cui pagina dopo pagina si susseguono le scene ad alta tensione e ogni calo di emotività è bandito.
[Volume 1]

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Ero stata attratta dalla copertina a dire il vero, lo avevo intravisto e mi ero tenuta a mente il nome, fatto qualche ricerca e il momento richiedeva un libro non proprio leggero ma di genere diverso, un buon vecchio thriller come ne leggevo anni fa.
Quindi sono tornata alla carica e ho deciso di affrontare il primo libro della trilogia.
Non sto nemmeno a dare qualche anticipo sulla storia, è un giallo, leggetelo. Ma il bello del libro è l'ambientazione, lo stile. Prima di tutto perché è ambientato in Mongolia e già questo è un aspetto molto singolare, non mi era mai capitato tra le mani un libro della Mongolia e soprattutto non so nulla di questo paese, misterioso e affascinante ma sconosciuto. Poi appena inizia la lettura capisci che è diverso. Mi spiego meglio: non so se capita anche a voi quando leggete un libro diverso dai soliti americani, capita anche quando si guarda una serie tv o un film, già dalle prime scene come dalle prime righe ti accorgi che è diverso, non è americano. Io non denigro gli ambienti diversi, è che te ne accorgi subito. Quando ho iniziato questo libro pensavo fosse stato scritto da un americano, perché era americano tutto, tranne il paese. Invece non è scritto da un americano, ma non ne senti la differenza. Badate bene, non è una critica anzi, perché a volte i thriller di altre nazionalità sono un po' fiacchetti, o si annunciano come noir che per me non riescono bene nell'intento, mentre un americano non ti delude mai, anche se la storia non piace, lo stile è una certezza. Quindi già la Mongolia è un terreno inesplorato nei thriller, chissà cosa mi aspettassi, mentre trovare una certezza mi ha fatto immergere interamente nella lettura e apprezzarne di conseguenza anche tutte le diversità dovute alla cultura. I nomi impronunciabili, la steppa, l'abitazione tipica Yurta, le tradizioni sciamaniche, insomma mi è piaciuto proprio tanto. E se qualcosa può sembrare inverosimile, beh il l'ho letta con gli occhi di chi è rimasta affascinata dalla potete magia degli sciamani, dalle tradizioni verso gli antenati che a noi non appartengono o abbiamo perso, quindi come fa Yeruldelgger quando entra nella Yurta, ho rispettato certe cose a me lontane, mi sono adeguata alla situazione e sono andata avanti ma con discrezione. E forse è l'unica cosa da fare in un terreno inesplorato come questo.

SIMON'S CAT DAL VETERINARIO di Simon Tofiel

Trama 5/5: Inutile dire che le vignette sono eccezionali, mi consolo che tutti gatti del mondo sono creature strane ed enigmatiche ma con le stesse abitudini malsane ^_^

LO SCHIAVISTA di Paul Beatty


Trama 5/5: "So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato". Questo l'inizio della storia di Bonbon. Nato a Dickens - ghetto alla periferia di Los Angeles - il nostro protagonista è rassegnato al destino infame di un nero della lower-middle-class. Cresciuto da un padre single, controverso sociologo, ha trascorso l'infanzia prestandosi come soggetto per una serie di improbabili esperimenti sulla razza: studi pionieristici di portata epocale, che certamente, prima o poi, avrebbero risolto i problemi economici della famiglia. Ma quando il padre viene ucciso dalla polizia in una sparatoria, l'unico suo lascito è il conto del funerale low cost. E le umiliazioni per Bonbon non sono finite: la gentrificazione dilaga, e Dickens, fonte di grande imbarazzo per la California, viene letteralmente cancellata dalle carte geografiche. È troppo: dopo aver arruolato il più famoso residente della città - Hominy Jenkins, celebre protagonista della serie Simpatiche canaglie ormai caduto in disgrazia -, Bonbon dà inizio all'ennesimo esperimento lanciandosi nella più oltraggiosa delle azioni concepibili: ripristinare la schiavitù e la segregazione razziale nel ghetto. Idea grazie alla quale finisce davanti alla Corte Suprema.

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Avevo letto qualche intervista di Beatty, avevo letto anche molte recensioni, e devo dire che mi trovo perfettamente d'accordo con la maggior parte delle opinioni. E' un'ironia molto amara quella che si percepisce in ogni pagina di questo libro. Perchè se è vero da una parte che il miglior modo di trattare un argomento delicato è di buttarla sul ridere, c'è dall'altra parte il rovescio della medaglia, ovvero finite le risate rimane un sorriso ebete e un ghigno che sottintendono che chi ti ha parlato di questo argomento "buttandola sul ridere" ha anche toccato corde che da ridere proprio non fanno. E il razzismo rappresenta in assoluto un argomento drammatico e delicato e purtroppo che non passa mai di moda.
A volte è difficile essere razzisti e altre è difficile non esserlo.
E se in questo libro si ritorna alla segregazione razziale con ironia, basta guardarsi attorno per capire che di ironico non c'è nulla di questi tempi e non serve andare oltre oceano per percepire questa ostilità.
Non voglio espormi con una mia opinione personale, è un argomento delicato e ha molte sfumature, come tutto del resto. Ma spesso è la mancanza di conoscenza e la diffidenza che ci portano ad essere razzisti. Già se si prova a conoscere qualche straniero al lavoro o in condominio è tutto diverso e si possono apprezzare le caratteristiche differenti sia nelle abitudini sia nella cucina per es. Ma forse ciò che spaventa tanto è il numero alto degli sbarchi che non si riescono più a controllare e le notizie false e pilotate che il grande fratello ci propina tutti i giorni per alimentare la nostra ignoranza e la nostra cattiveria... chissà dove ci porterà tutto questo... oibò...